Preview (giovedì)
Siamo in tre, Matteo si unirà alla ballotta il giorno dopo. Partenza da Forlì alle 10-20. Volo tranquillo, funestato dalla lettura della sconfitta della Fortitudo ad Avellino. Arrivo e noleggio di una conturbante Polo 1200. Diego si mette alla guida e mostra subito una sicurezza superiore a quella di qualsiasi indigeno locale. Quattro ore e passa di viaggio su comode autostrade senza pedaggio e una trentina di chilometri in campagne conquistate da qualsiasi tipo di bovino. Alle 18.00 entriamo nella ridente Minehead. Salto al Butlins: vorremmo entrare per fare un giro sulle macchine elettriche, ma senza l´abbonamento famiglia non è possibile. Amen ed alleluia, propendiamo per una passeggiata in spiaggia, seguita dalla ricerca di un alloggio notturno. Dopo una decina di rifiuti troviamo un alberghetto a due stelle. Sale il relax, quindi aperitivo con Guinness, cena basata su filetto strogonoff bagnato da Rioja spagnolo e post serata in un pub caratterizzato da un curioso question time: quattordici domande, chi risponde a tutte vincerà cento sterline. Alla prima (un animale con la N come iniziale) cediamo e preferiamo buttarci sulle birre. Ritorno in hotel, snooker e riposo. Venerdì (la mattina)Sveglia e colazione all´inglese senza alcuna rinuncia. Dobbiamo essere in loco alle 12.00, quindi giretto nel borgo medievale di Dunster (la Verucchio inglese) e salto da Tesco per la spesa. Da questo momento è ATP. E siamo in quattro, perchè arriva Matteo con la t-shirt più cool del festival: the Hold Steady Almost Killed Me…Il sonno, le ore di viaggio, lo stupore in vedere il villaggio vacanze Butlins che nessuno avrebbe mai immaginato… "ma che cazzo è, un Valtur?"Sì è così, vi dico. Uno dei più longevi e rinomati festival in Europa lo fanno dentro una versione inglese del Valtur. Immaginatevi un centro commerciale a due passi dal mare (un mare freddo e marrone, un villaggio di pescatori benpensanti a due passi dalla Cornovaglia e a tre dal Galles); immaginatevi orde di ragazzi 20-30enni, stereotipi a più non posso, buttafuori tatuati, tecniche di occultamento di alcolici, tecniche di smaltimento di alcolici, il peggiore/migliore cibo che abbiate mai ingerito, e una depressione post-evento che neanche quando passavate l'estate con gli scout. Butlins, è un holiday centre, un inglesissimo lower-class resort dove vanno di solito quelli che non possono permettersi un Ryanair a Malaga o in Grecia. Appena arrivati il contrasto era evidente. Qualche famiglia di teenager con bambini, e un sacco di maglie a strisce e ciuffi incolti. Man a mano che il weekend si é inoltrato la folla si é andata omogeneizzando. Venerdì
il check in comincia verso le 16:00, noi arriviamo quattro ore prima, unica soluzione: giri di pinte al pub. Ci rendiamo subito conto della surrealtà del Butlins e facciamo una grandissima conoscenza: LUI.
LUI è una presenza costante per tutto il festival. E’ un buttafuori di circa 200kg di peso (non esageriamo). La sua testa di circa mezzo metro di diametro è completamente rasata e tatuata. Nessuno ha avuto il coraggio di avvicinarcisi e carpire cosa esattamente si é tatuato in testa. Certe cose é meglio non saperle. Verso le 17.30, dopo esserci sistemati in un appartamentino comodo, con moquette, ci dirigiamo a vedere Ian Wadley, assenteismo chitarristico, con un tocco noise, e un tocco 13enne che ha ricevuto in dono una Fender da babbo natale, ma che si è già stancato di suonarla. Ale e Marco si accorgono di aver già visto un suo concerto. Se ne accorge, preoccupato, anche Ian, convinto che i due siano venuti per ucciderlo. Inutile dire che non compreremo l'album. La stanchezza di una notte insonne per raggiungere questo posto surreale, si fa sentire, ci fermiamo a casa (nella nostra nuova casa, precostruita) per una pasta ai porcini. In realtà é tutta una scusa: in tv c'é lo snooker. Rapida fuga al supermarket a due metri da noi: faremo amicizia col commesso e compreremo vini, crackers non salati, shampoo alla fragola ed una spilletta di Tupac (the perfect gay set). Aperitivo con salame e Merlot californiano. Diego ai fornelli, Matteo fa amicizia con Beth (una nostra vicina discendente della manza di Bristol). Cena ottima, con un Hamilton favoloso nel distruggere McCulloch 13 a 8 grazie ad un sapiente uso dell´allunghino. Ma abbiamo fretta, alle 20.00 Warren Ellis inizierà la sua catarsi. E saranno Dirty Three, per alcuni fra i più bei concerti dell´evento. Per altri addirittura il migliore. Arriviamo per gli Only Ones, che fanno la loro onesta figura davanti ad un pubblico attento come pochi altri (e lo sarà per tutti e tre i giorni, buon segno igenico/alimentare). Ma poi è vita vera. Warren vive di frenesia e irrequietezza. Il suo violino (sporco) è un´arma impropria, esaltata da un Jim White dettagliato nello spiegare il paradigma di raffinatezza, mentre Mick Turner sfodera la prestazione della vita. Organizzano loro e che Dio li benedica. Un´ora e mezza straniante o, se volete, esaltante. Ancora scossi corriamo al Reds, il palco più piccolo ma più accogliente, per gli Art Of Fighting. Marco è di parte e si fa il concerto con i lacrimoni, tuttavia sembrano gradire tutti. Chiamalo, se vuoi, slow-pop.
Nessuna fuga, si resta al Reds per i Brokeback che, insomma, ci suona uno come Douglas McCombs. Oltremodo piacevoli, iniziano a far respirare quell´aria di Chicago che caratterizzerà tutto l´ATP. Iniziano, però, i primi cedimenti. Ale sceglie di mollare Josh Pearson per il letto. Restiamo in tre, saliamo al centre stage, troviamo da sedere e aspettiamo quello che, a pelle, dovrebbe diventare il nostro nuovo messia. Una bufala, ecco cosa è Josh Pearson. Anzi, un millantatore. E parliamo, badate bene, del Josh Pearson uomo, non del musicista. Il concerto scorre, meglio (molto) quando accompagnato sul palco da due adepti, bene (anche se a tratti monocorde) nei momenti in cui è solo. Ma questa è musica, noi ci concentriamo anche sui testi, e vediamo distese infinite in cui andare a cercare il salvatore, ci sentiamo toccati da demoni feroci, beviamo liquidi puri. E ci crediamo, eccome se ci crediamo. Ed invece il giorno dopo becchiamo il tipo alla disperata ricerca di donnine, veloce a mettere il suo cappellone da rodeo sul capo di qualche bionda per scattarle una foto, malizioso nella camminata. E il salvatore dove cazzo sarebbe finito? E cosa intendi, falso fra i falsi, per isolazionismo? E poi, caro, cosa ci facevi sugli scivoli della piscina con lo slippino? La sola consolazione è sapere che non beccherà una topa una (come noi del resto. E saremo i soli cinque di tutto il festival). Usciamo, abbassiamo il capo innanzi a LUI, e rientriamo in appartamento. Bisogna svegliarsi presto, sulla tv dell´ATP alle 8 passano tutto il dvd "Slow Century" dei Pavement. E alle 12.00 sarà Higgins-O´Brien.
Sabato (telegrafico)
Digital Primitives. Per Marco e Diego l’esordio del secondo giorno. Per Diego e Marco la scoperta del festival vissuta con un eccitato Warren Ellis al fianco. Tre tipi usciti dalla fabbrica metallurgica del jazz, prendendo tanta tradizione per devastarla con fantasia libera ed anarchica. Cooper Moore, prima di essere richiamato dalla moglie per tagliare il prato di casa, tira fuori un allunghino e lo rende strumento. Alla fine cantiamo tutti e siamo felici.
Magnolia Electric Co. Il piccolo/grande Jason Molina non è abituato alle grandi folle, ma dopo essersi preso la sera prima almeno 800 spettatori in contemporanea con i Dirty Three, oggi apre al main stage di fronte a 2000. Un pezzo meglio dell’altro, una voce struggente, una chitarra che graffia il cuore. D’accordo, non sarà (ancora?) sua maestà Bonnie Prince, ma la distanza è solo di un allunghino. Da brividi. Poi lo becchiamo in mezzo alla folla, e il suo ricordo dell’Hana-Bi è ancora immutato.
Sally Timms. E’ in contemporanea con Shannon, ma quando scopro che era la cantante dei Mekons scelgo lei. Un set intimo, sulla moquettona del centre stage, con un chitarrista che è il sosia di Don Vito Corleone da giovane, un polistrumentista che sembra uscito da un racconto di Steinbeck e la voce di Sally che incede sorniona tra atmosfere howegelbiane, spoken words ed echi di Cohen. Si scopre poi che molti dei pezzi li hanno scritti due tipini come Mark Eitzel e Kevin Coyne.
Shannon Wright. Non la si vedeva da tempo, nel frattempo bei dischi e la collaborazione con Tiersen. Questa rimane fuori dal live, ma restano le canzoni ed una riot girl incazzata e provocante. Una sorta di sesso animalesco, deragliante ed introspettivo. Fosse stata una tappa del Tour de France Chan Marshall avrebbe preso dieci minuti e passa. Unica pecca, il taglio di capelli del bassista, appena uscito da un concerto dei Manowar.
Low. All’inizio provo a dare fiducia al vecchio Alan Vega – in contemporanea al centre – ma il suo aspetto a metà tra Ozzie Osbourne e Renato Zero mi rispinge alle cupe atmosfere della band di Alan Sparhawk. Mi basta Amazing grace per piombare in uno stato introspettivo profondissimo dal quale solo la notizia della sconfitta di Ebdon riesce a farmi riemergere.
Spiritualized. Seduti in terra, con cibi, birre e svariate apparizioni del presenzialista (aka Jason Molina). Non sappiamo quanto Jason Pierce potesse gradire l’approccio all’ascolto, noi abbiamo goduto non poco. Versioni acustiche ed archi a go go. Bella roba.
Nick Cave/Grinderman. Ah ma allora ci sono veramente le 6000 persone annunciate dall’organizzazione. Sarà contento il buon Tiersen, che se la canta in contemporanea al centre stage (alla fine non ho conosciuto NESSUNO che l’abbia visto). Per il resto che dire? Cave per un’ora fa il Cave (e lo fa, al solito, alla grandissima), e per l’altra diventa il grinderman del disco che un mese fa ci ha sbattuto in faccia un rock ‘n’ roll come non lo sentivamo da trent’anni. Devastante.
The Drones. E’ da un po’ che anche qua (in Europa) ci si è accorti di questa rock band australiana, tanto che i Drones saranno gli unici a non dover condividere lo stesso orario con qualcuno. E infatti il centre è impaccato all’inverosimile per un trequartidora di rock sporco e malinconico, per niente facile, che non cerca ammicchi ad alcun trend. Davvero ottimi. Alle due poi si scopre che ho bevuto troppo, fumato troppo, dormito troppo poco e mi perdo gli Einsturzende Neubauten come un pisquano. Cazzo.
Domenica
Ore 10, sveglia col garrito isterico dei gabbiani terrorizzati dai corvi neri che hanno colonizzato Butlins. Lungi da ogni anomalia ornitologica, il fenomeno è spiegabile con la metamorfosi diurna degli Einsturzende Neubauten e degli adepti al loro seguito in uccelli della specie Corvus Corax. Preso atto di ciò, mentre Marco e Matteo decidono per una colazione al plutonio in centro, noi ci dirigiamo nell’impero sub-tropicale/poli-funzionale delle piscine coperte per un overdose di cloro. Josh Pearson, il millantatore in costumino irriverente, non si cura della fila e li oltrepassa per lo scivolo con terminal ad imbuto che neanche Willy Wonka. Rimaniamo indignati fino a quando Joanna Newsom in bikini prende posto tra noi nell’idromassaggio mentre Nick Cave, cavalcando un gommone stile rodeo giù per uno scivolo, continua a profetizzare: “I’m the Grinderman!”. In realtà Cave e la Newsom non c’erano, ma tant’è. E’ l’ora dei concerti, oggi si comincia presto. Marco e Matteo salgono al centre stage per Papa M. Che poi potevano benissimo mettere subito David Pajo visti i brani proposti. Ma poco importa: colui che ha fatto parte di uno dei pochi gruppi degni del termine seminale accarezza con voce soffusa, quasi volesse strizzare l’occhio ad Elliott Smith. Non lo fa, ma con la chitarra arriva in paradiso. E l’ultimo pezzo, strumentale, ti fa venir voglia di tirar fuori tutta la discografia Aerial M. Noi scegliamo un triplo salto mortale all’indietro fino all’assemblea costituente degli Art Ensemble Of Chicago. Roscoe Mitchell è lì per i pochi presenti, ai suoi piedi un clarinetto ed un sax alto. Esile, colorato, assente di sguardo e di spirito. Le sue dita sui tasti d’ottone sanno portarlo altrove, e noi con lui. Mi chiedo come quella sagoma vecchia di quasi settant’anni possa contenere polmoni così generosi. Suona 2 pezzi da oltre venti minuti filati, respirazione circolare e dita fuori da ogni controllo. Ci uccide tutti, saluta con garbo e se ne va. E’ leggenda vera. Insomma un set free-everything ipnotizzante che piazzato all'una e mezza di pomeriggio potrebbe tranquillamente rispedirti a nanna che tanto... ma dopo di lui c'è Ed Kuepper, l'uomo che 34 anni fa ha fondato un gruppo chiamato The Saints. Il signor Kuepper, insieme al batterista avant-jazz Jeffrey Wegener (con lui nei Laughing Clowns fino al 1984), ti butta lì un'ora di post-tutto suonata da dio che ti fa subito venir voglia di una pinta ghiacciata e di capire perchè cazzo non ti sei ancora trasferito a Melbourne (patria tra l'altro del grande Neil "The machine" Robertson). Che fatica. Tempo di A Silver Mount Zion Orchestra, per Marco e Matteo il concerto del festival. Per gli altri poco ci manca. Oltre il misticismo, oltre tutto: potevano suonare solo loro ed andava bene ugualmente. Sophie, dimagrita, al solito si toglie scarpe e calzettoni. Inevitabile l’erezione, che durerà ben più dell’ora e mezza di concerto. Quando Efrim urla e gli strumenti deragliano arrivano pelle d’oca e brividi. Pensare che certa gente l’hai vista anche con i GY!BE ti fa dare un senso alla vita.
Tra un concerto e l’altro si va al saloon dove si lascia un quarto di stipendio alla volta al banchetto della Rough Trade. Efrim, Sophie e soci hanno lasciato il segno. Ora si punta tutto su Bill Callahan (Smog, per i profani), si dice che qualcuno sia venuto sin qua solo per lui, intuiamo di chi si tratta. Non è ancora ora, sul palco centrale sale una Cat Power troppo poco sbronza per essere credibile. Si guarda in giro e non sa dove mettere le mani. Bel vestito, bella acconciatura. Credo sia la più bella del festival, forse l’ha capito e se ne dispiace. Non per questo il concerto migliora. Dopo poco ci si ritrova tutti per White Magic. Tutti tranne i fonici, che si mettono d’impegno dando il peggio e rovinando il primo pezzo suonato, nonché quello da me preferito. Poi le cose tornano a posto ed i White Magic esprimono al meglio la bellezza di quell’album che porta il nome di Dat Rosa Mel Abipus. Mira Billotte ci porta echi del passato miscelandoli a nuovi misticismi, noi, seduti attorno ad un tavolo, ci aggiungiamo il profumo del tabacco ed un cicchetto di whisky di tanto in tanto. E stiamo bene.
E’ il momento, avanziamo tra le prime file. Vogliamo vedere che faccia ha, che espressioni fa quando tira fuori quella voce. Ecco, l’attesa è terminata e Bill Callahan sale sul palco, imbraccia amorevolmente la sua chitarrina. E’ accompagnato da un batterista che assomiglia alla trasposizione umana del dio odino, poi basso tastiere ed una violinista davvero ammodo. Attacca con Sycamore, e da li in poi non ce n’è più per nessuno. Un migliaio di persone in religioso silenzio che pendono dalle sue labbra. Lui, di poche parole, catechizza con la voce più magnetica del festival, e tutta la sua indiscutibile arte che sarebbe ambizioso descrivere. Ecco rock bottom raiser, cold blooded old times, ma soprattutto Woke on a Whalehearth… ascoltandolo dal vivo abbiamo la conferma che anche questo è un grande lavoro. Poi una Say valley maker tanto intensa che fatico a trattenere lacrime di pura commozione. Mi guardo attorno, altri non ci sono riusciti. -and there’s no love where there is no obstacle- E’ musica da occhi lucidi. Vorremo non finisse mai, invece sono appena quarantacinque minuti e trascorrono in un lampo. Lo tirano giù dal palco senza pietà allo scadere del tempo, la gente protesta rumorosamente. Ingoiamo il rospo ed aspettiamo la bionda. Dopo che LUI ha deposto dolcemente un’immensa arpa da cento chili sul palco (“questa mano po esse piuma e po esse fero, oggi è stata piuma”) ecco Joanna Newsom come appena uscita da una fiaba. Suona pezzi vecchi, meno prog e più folk. Bella e brava, per alcuni voce da usignolo, per altri da paperella. A noi piace così, e più che un duetto con Bill Callahan ne sognamo uno con Branduardi. Rimane un sogno, ma Psarandonis inviterà quest’ultimo al Crete Goat Festival 2007: lì sarà tutta un’altra storia.
Prendiamo fiato e ci avviamo sul viale del tramonto verso l’Oyster Bay, la nostra dimora. Il festival è agli sgoccioli ma non vogliamo pensarci. Buttiamo ancora la pasta: dopo sedanini panna porcini e pancetta, atomici fusilli al ragù, trenette al pesto a patate, è la volta di sacrosanti spaghetti AOP. Fino alla morte. Decidiamo che il concerto di congedo sarà quello dei Tren Brothers aka Jim White (senz’altro la miglior batteria del festival, e non ci riferiamo a questo festival in particolare) e Mick Turner dei Dirty Three. Sono chitarre in loop e batteria accarezzata magistralmente. L’olezzo della moquette del centre stage è sempre più pesante e familiare, vi spalmiamo ancora una volta i nostri corpi sopra. Ascoltando quelle melodie crepuscolari allontaniamo l’idea del ritorno, e stiamo bene.
Poi si parte davvero, la mattina dopo. Altre duecentocinquanta miglia di guida a sinistra senza sbagliare una precedenza. Poi è aeroporto, Matte se ne torna in terra di Catalunya, noi partiamo dodici ore dopo. Ci concediamo un hotel di lusso col pavimento del cesso riscaldato: commovente. Dopo la razione quotidiana di snooker ci addormentiamo con Footlose, il che è tutto dire.